Il cinese sul lettino. Ecco perchè la psicoanalisi scopre l’Oriente. Intevista a Stefano Bolognini

di Luciana Sica (la Repubblica, 30.06.2011)

 

Se un cinese sogna di mangiare un chow chow, vorrà mordere il suo analista che è un cane o cibarsi di una vera prelibatezza? Non si sottrae allo humour, Stefano Bolognini: «Li amo talmente i cani, io, che un sogno del genere mi metterebbe davvero in difficoltà. Sarei comunque un pessimo analista di un paziente del genere, altro che neutralità!». Poi, più serio: «Non esistono interpretazioni oggettive, formule precostituite e valide per tutti. È il singolo sognatore che conta: per il paziente cinese, potrà darsi il primo caso, il secondo, o anche – in modo condensato – tutti e due. Andrebbe analizzato senza preconcetti, direi anzi senza pre-concezioni troppo legate alla sua tradizione culturale».

Paziente orientale, analista occidentale. Tutt’altro che un’ipotesi astratta, visto che a sorpresa la Cina comunista risulta estremamente interessata alla psicoanalisi. E a occuparsene sarà proprio Bolognini, da un paio d’anni alla guida della Società psicoanalitica e ora – ed è la prima volta per un italiano – neopresidente dell’International Psychoanalytical Association: l’Ipa, che fu fondata da Freud nel 1910 e oggi conta dodicimila iscritti. «Un gran riconoscimento per la creatività della psicoanalisi italiana», per dirla con la punta di enfasi di Bolognini, che sarà proclamato President Elect al congresso mondiale di Città del Messico in programma dal 3 al 6 agosto. Altra notizia: alla vicepresidenza del tempio dei freudiani ci sarà la svedese Alexandra Billinghurst – mai prima d’ora una donna aveva conquistato i vertici dell’Associazione.

“Non sanno che portiamo la peste”, è la celebre frase – del 21 agosto del 1909 – pronunciata da Freud, salpando con Jung (e Ferenczi) alla volta di New York. Dopo un secolo, dottor Bolognini, la psicoanalisi ha “appestato” il mondo?

«Non potrebbe essere diversamente, visto che è il più serio strumento di conoscenza e di cura del mondo interno degli esseri umani che mai sia stato messo a punto. Con una sottolineatura: la psicoanalisi ha una complessità concettuale e tecnica molto maggiore di quella di una volta».

Quali sono i Paesi “nuovi” in cui si sta diffondendo?

«Fino a pochi anni fa erano la Turchia, il Libano, tutto l’Est europeo, in Asia la Corea e in America Latina il Paraguay. Oggi, oltre alla Cina, ci sono il Mozambico che per ragioni linguistiche conta sugli analisti brasiliani, l’Iran dove le classi colte sono affamate di psicoanalisi (a Teheran lavorano otto analisi formati a Parigi e negli Stati Uniti), l’Egitto e il Marocco anche lì con analisi di derivazione francese, il Sudafrica in cui già operano quattro analisti iscritti all’Ipa e la stessa Cuba che ha preso i primi contatti con gli analisti latinoamericani sempre dell’Ipa».

La novità assoluta è la Cina. Nessun problema politico?

«Sono le attività esplicitamente antigovernative ad essere sotto controllo. La psicoanalisi non solo è tollerata ma addirittura inserita in un progetto politico volto a creare una “harmonious society”».

Una società armoniosa, grazie agli epigoni di Freud?

«Ècosì che la pensa la nomenklatura cinese, e a Pechino – lo scorso ottobre – si è svolta la prima conferenza asiatica dell’Ipa, con oltre cinquecento partecipanti. Nella capitale ci sono nove candidati in analisi dalla moglie dell’ambasciatore tedesco e altrettanti a Shangai, sempre da un analista tedesco che si è trasferito lì. Inoltre èstato riconosciuto un “Allied Center” composto da psichiatri e psicologi per così dire tifosi della psicoanalisi, una sorta di “testa di ponte” culturale favorevole all’arrivo di analisti didatti o alla possibilità che terapeuti locali vadano a formarsi all’estero per poi rientrare. Università e ospedali sostengono il progetto formativo di nuovi analisti… E ormai sono molto frequenti i casi di Shuttle-analysis, di terapie on line, via Skype».

Ammetterà una certa alterazione del setting. Non saràun addio al divano?

«Assolutamente no. Intanto il primo anno di analisi è quello “tradizionale”, poi la Rete consente almeno il vis-à-vis, ma solo quando c’è un problema di distanza».

I pazienti quanti sono, e soprattutto chi sono?

«Di questo sappiamo pochissimo, non esistono statistiche né censimenti. E al momento ci sono soprattutto analisi di formazione, visto che stanno iniziando. Ma in linea generale, in un paese come la Cina, dove la concezione collettivista ha depersonalizzato gli individui, credo che il recupero della soggettività sarà uno degli elementi decisivi nella richiesta di analisi».

La qualità non verrà decisamente annacquata in Oriente come in Africa?

«Gli inizi in aree lontane dai grandi centri psicoanalitici sono sempre difficili, e così è stato anche nei Paesi ora evoluti quando la psicoanalisi era agli albori – compresa l’Italia, negli anni pioneristici prima della Seconda guerra mondiale».

Mettiamo la celebre riscrittura del “romanzo familiare” dei pazienti. In realtà antropologiche così differenti dalle nostre, dove le famiglie possono essere comunità anche estese, come lavorerà un analista?

«I riferimenti teorici sono comunque quelli classici, validi in tutte le culture perché tengono conto delle invarianti di base della mente umana. Naturalmente le specificità locali vengono rispettate: del resto, già il contesto socioculturale della Sicilia varia molto rispetto a quello dell’Alto Adige. E gli analisti lo sanno».

Ma la psicoanalisi innestata in culture diversissime da quella occidentale, non produrrà nuovi ibridi?

«No, al massimo delle “nuances” differenti. Le pulsioni, il narcisismo, i conflitti di dipendenza sono universali. La sessualità, l’ambivalenza, l’aggressività, le difese contro il dolore riguardano la natura di base di tutto il genere umano».

La psicoanalisi sembra comunque prendersi una rivincita, dopo i requiem intonati negli scorsi anni. Anche grazie ad alcuni studiosi geniali come i Nobel Edelman e Kandel?

«Il riconoscimento della compatibilità con le neuroscienze è stato senz’altro importante, ma è solo una delle ragioni per cui la psicoanalisi non è destinata a morire».

Tutte le scienze evolvono: oggi lei si farebbe operare con una tecnica chirurgica di cent’anni fa o con strumenti di ultima generazione? Nel mondo, la psicoanalisi guarda a Freud come al fondatore o come a un referente teorico ancora attuale?

«La psicoanalisi rischia di diventare una religione se pone le teorie in una posizione “teologica”, come fossero verità assolute rivelate. Ma questa non era la posizione mentale di Freud. Certi cultori integralisti ne assumono le teorizzazioni come elementi sacri e indiscutibili, se non come un feticcio. E invece la psicoanalisi va “vista” come un grande albero: se le radici e il tronco sono la base freudiana, tutti i rami successivi sono di una ricchezza irrinunciabile. Lo sviluppo c’è stato, e anche molto grande, ma comunque “sulle spalle di Freud”».

Lo psicoanalista e il musicista: l’ascolto musicale nell’ascolto psicoanalitico

Scritto dal dott. Stefano Mengarelli

 

Ad una prima riflessione ci si potrebbe chiedere: come può la pratica psicoanalitica, non per niente denominata talking cure, in cui la parola assume un significato molto importante, essere associata a un’arte, quella musicale, per la quale la parola è a dir poco superflua?

La risposta sta, come vedremo, nella crescente rivalutazione del non-verbale, che ha ridotto sempre di più lo scarto esistente tra musica e psicoanalisi rendendole due arti non solo reciprocamente utili l’una all’altra ma decisamente molto simili.

L’accostamento alla musica sensibilizza l’orecchio psicoanalitico, lo esercita a dare valore informativo alla forma fonetica delle parole, al significante più che al significato.

Sviluppando una maggiore perspicacia uditiva per i ritmi, le armonie, la melodiosità o il fraseggio di qualunque discorso  e potenziando l’acutezza percettiva per le sfumature della voce, invita l’orecchio a scostarsi dai contenuti verbali e a privilegiare i messaggi trasmessi involontariamente dalla vocalità più che dai contenuti del discorso; lo addestra ad ascoltare le inaudite voci dell’inconscio, quelle che, al pari dei lapsus, si infiltrano nella lingua, scavalcandone l’elaborazione cosciente.

La musica possiede inoltre la virtù di stimolare percorsi mentali alternativi, suggerire deviazioni al pensiero, promuovere una mobilità delle idee, che favorisce l’attraversamento di aree psichiche meno frequentate di altre (1).

L’ascolto musicale insegna quindi ad ascoltare ciò che non sappiamo dire. Non si tratta dunque di applicare la psicoanalisi alla musica ma, come dicevamo all’inizio del capitolo, di tentare un’operazione inversa: applicare la musica alla psicoanalisi, per addestrare i nostri mezzi mentali a contattare quello che non può essere detto, qualche tempo prima che lo sia; per esplorare così il campo del pre-verbale.

L’inconscio, come si sa, è privo di un vero e proprio linguaggio paragonabile alla nostra lingua quotidiana. Al di là delle teorizzazioni di Lacan, che lo considera “strutturato come un linguaggio”, l’inconscio non dispone né di un lessico, né di una sintassi, ma solo di qualche funzione espressiva analoga alla metafora e alla metonimia.

L’inconscio però risuona nella mente altrui, fa sentire la sua presenza con modalità pre-verbali piuttosto che verbali, e cioè con modalità musicali più che linguistiche. È per questo che in seduta l’analista ha bisogno di un orecchio musicale(2).

E ne ha bisogno soprattutto quando il paziente gli chiede di funzionare non tanto come intelligenza che spiega le cause, ma come interlocutore capace di interagire con la parte indifferenziata e muta della psiche e di ospitare quelle esperienze che non hanno trovato parole per essere dette o sono in attesa di trovarle.  Invece che fornire all’analizzando chiavi per decifrare i suoi “rebus interiori”, occorre allora fornirgli uno strumento ricettivo che supplisca con la sua sensibilità ai deficit espressivi di un oggetto muto qual è l’inconscio.  Occorre cioè affiancare la sua mente, che soffre di limitate capacità trasformative simboliche, con un efficace dispositivo d’ascolto (3).

L’ascolto dell’analista deve saper conferire il giusto rilievo a suoni e significanti verbali, cogliendo realtà inaudite del mondo affettivo altrui; così facendo dispone ad una precognizione dell’inconscio .

Quando si parla di elaborazione psicoanalitica, ci si riferisce spesso a un’area di “risonanza interiore”, intesa come una particolare forma di intimità tra il mondo interno del paziente e quello dell’analista, mediata dalla capacità di quest’ultimo di dare ai messaggi dell’altro una prima configurazione sensoriale , che li prepari a diventare parola. In quest’area devono soggiornare i sogni e le fantasie, per poter acquistare senso dicibile. Di Benedetto è del parere che in quest’area lavori un pensiero di tipo musicale , che trasforma le immagini in suoni atti a fungere da precursori del linguaggio verbale (4).

Un tipo di ascolto sensibilizzato ai valori fonici e alle figure emergenti dal suono scova nella musicalità del parlare un risvolto pre-rappresentativo che giace nell’inconscio in condizione di latenza verbale. Da questo punto di vista il latente non è solo un’altra scena sotto quella manifesta, ma anche tutto ciò che sta annidato nei suoni della voce a costituire l’ordito sonoro di un discorso a venire (5).

L’ascolto psicoanalitico, sintonizzato con la dimensione sonora del parlare, funge insomma da dispositivo atto a rilevare e dar senso all’esperienza psichica profonda del paziente, prima che giunga ad essere detta.

Queste considerazioni portano a chiederci in che misura l’esperienza analitica ha analogie con l’esperienza musicale e a ricercare  le affinità tra la pratica dello psicoanalista e la pratica del musicista.

A questo punto, possiamo quindi fare una prima considerazione : la musica fonda il suo potere produttivo, creativo, sulla interpretazione che è anche lo strumento principe della psicoanalisi. Ambedue le interpretazioni (quella musicale e quella analitica) consentono di rivelare quello che a prima vista non sta scritto nello spartito (del musicista) o nella narrazione (del paziente). Ambedue leggono/ascoltano il linguaggio secondario che il compositore/analizzando ha lasciato sullo spartito/narrazione che costituirà il linguaggio primario della comunicazione (6).

L’interprete della musica (come lo psicoanalista) penetra in una possibilità data e la modifica, senza però alterarla, e dà una voce altra a un materiale costituito, influenzandone l’espressività. Ciò può permettere all’ascoltatore (o al paziente), di rispecchiarsi e di ritrovarsi in questo nuovo mondo di suoni (o parole).

Il compositore (o il paziente) oggettiva il contenuto del proprio mondo interiore; a sua volta l’interprete (o il terapeuta) tenta una comprensione empatica delle intenzioni e dei concetti del compositore  (o del paziente) e li analizza tenendo conto della propria capacità di proiettarli in suoni (o parole) che li modificano di quel tanto che basta a farli recepire dall’ascoltatore ( o dal paziente), senza distorsioni, suggestioni o seduzioni pericolose, stimolando una giusta reattività, un adeguato contatto psicologico e una consapevolezza della logica strutturante (7).

Quello che quindi l’interprete musicista e lo psicoanalista devono fare è dare una voce nuova a un materiale preesistente, oppure, per usare le parole di Augusto Romano : << Al terapeuta spetta di suonare la musica che manca al paziente, che il paziente non conosce, ma che pure è nascosta dentro di lui >>(8).

In una metafora efficacissima Speziale-Bagliacca (9) parla dell’analista come di colui che dovrebbe essere in grado di risuonare come la viola d’amore. In questo strumento ad arco, dalla forma di una viola, una doppia teoria di corde è obbligata a vibrare per “simpatia”, anche se solo una viene toccata dall’arco. Suonano su uguali lunghezze d’onda, accordate all’unisono, ma affinchè si produca della buona musica le corde inferiori, quelle dell’analista, per rimanere nella metafora, non devono suonare autonomamente, ma prestarsi ad arricchire il suono, senza imporsi (10).

L’analista dovrebbe allora accettare la possibilità di farsi transitare dalle emozioni dell’altro nella relazione, ascoltando primariamente la propria vibrazione, la messa in movimento dentro di sé di quei frammenti di pensiero confusi, spaventati, esitanti o semplicemente in attesa di venire alla luce che l’analizzando affida al suo analista attraverso le infinite comunicazioni consapevoli o non, corporee o non, verbali o non, che si intrecciano nell’ora di analisi (11).

L’analista , come dice Di Benedetto, è come un interprete , che traduce <<i segni muti di un pentagramma inconscio>> in un discorso ascoltabile (12); ma tradurre i segni muti di un pentagramma non vuol dire svelare un mistero, ma soltanto farlo risuonare , e dunque assumersene la responsabilità.

Su questa strada ci soccorrono i miti dei popoli,  secondo i quali ogni uomo ha ricevuto dagli dei una <<canzone individuale>>, che <<è una melodia che esprime il suo ritmo individuale>>, e un <<suono fondamentale>> che <<costituisce la realtà metafisica ultima e personale del suo possessore>>(13).

In questa prospettiva, la malattia va considerata come un errore che getta l’uomo in balia di uno spirito, <<la cui voce rotta si nutre succhiando la sostanza sonora del corpo umano>>(14); lo scopo dell’intervento sarà quindi quello di ripristinare la musica originaria. Questo corrisponde in analisi, a sentire la musica dell’altro, il suono, il ritmo, qualcosa che sta nelle parole e oltre le parole, ed è la percezione di un andamento, di uno stile, di un’impronta individuale.



Note:

(1) Di Benedetto A., Prima della parola , Franco Angeli , Milano , 2000 , p.160.

(2) Di Bendetto A.(1998), << I sogni suonano? >>, in AA.VV. Morpurgo E.,Egidi V. (a cura di), La forma segreta, Franco Angeli, Milano.

(3) Di Benedetto A. (2002), << La musica come arte speculare alla distruttività della malinconia e alla creatività del lutto>>, Op.cit., pp.98-99.

(4) Di Bendetto A. Prima della parola , Franco Angeli , Milano , 2000 ,  p.57.

(5) Di Benedetto A. (1993), << La sublimazione nella prospettiva di Bion e Matte Blanco >>, in Riv.Psicoanal., 39, 1.

(6) Mancia M., << Psicoanalisi e forme musicali >>, in Volterra V. (a cura di) Melancolia e Musica : creatività e sofferenza mentale, Franco Angeli, Milano, 2002.

(7) Volterra V., <<La dove finisce il pianto >>, in Volterra V. (a cura di) Melancolia e Musica : creatività e sofferenza mentale, Franco Angeli, Milano, 2002, p.16.

(8) Romano A. Musica e psiche , Bollati Boringhieri, Torino, 1999.

(9) Speziale-Bagliacca, R., << Ferenczi: il corpo, il contenimento e il controtransfert >>, in Borgogno F. (a cura di), La partecipazione affettiva dell’analista, Franco Angeli, Milano, 1999.

(10) Credo che questa intuizione di Speziale-Bagliacca sia estremamente valida per illustrare la riflessione apertasi nella psicoanalisi contemporanea sugli aspetti legati alla partecipazione affettiva e sensoria dell’analista nella relazione, aspetti tenuti in ombra per anni a causa della necessità per Freud di demarcare la distanza della novella scienza, la psicoanalisi, dagli aspetti ipnotico-suggestivi da cui aveva tratto origine.

(11) Carollo R., <<Trasgressioni e trasformazioni nel duetto analitico>>, in Carollo R.(a cura di) La musica del diavolo: il diavolo nella musica, Moretti & Vitali, 2000, p.12-13.

(12) Di Benedetto A. (1994), Ascolto psicoanalitico e ascolto musicale, Relazione al Convegno <<Ascolto psicoanalitico e orecchio musicale>>, Lavarone. Testo dattiloscritto.

(13) Schneider M. (1960), Le Role de la musique dans le mitologie et les rites de civilisations non europeennes, Gallimard, Paris, trad.it. La musica primitiva, Adelphi, Milano, 1962.

(14) Schneider M. (1960), Le Role de la musique dans lemitologie et les rites de civilisations non europeennes, Gallimard, Paris, trad.it. La musica primitiva, Adelphi, Milano, 1962. Ivi, p.120.

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