Lo psicoanalista e il musicista: l’ascolto musicale nell’ascolto psicoanalitico

Scritto dal dott. Stefano Mengarelli

 

Ad una prima riflessione ci si potrebbe chiedere: come può la pratica psicoanalitica, non per niente denominata talking cure, in cui la parola assume un significato molto importante, essere associata a un’arte, quella musicale, per la quale la parola è a dir poco superflua?

La risposta sta, come vedremo, nella crescente rivalutazione del non-verbale, che ha ridotto sempre di più lo scarto esistente tra musica e psicoanalisi rendendole due arti non solo reciprocamente utili l’una all’altra ma decisamente molto simili.

L’accostamento alla musica sensibilizza l’orecchio psicoanalitico, lo esercita a dare valore informativo alla forma fonetica delle parole, al significante più che al significato.

Sviluppando una maggiore perspicacia uditiva per i ritmi, le armonie, la melodiosità o il fraseggio di qualunque discorso  e potenziando l’acutezza percettiva per le sfumature della voce, invita l’orecchio a scostarsi dai contenuti verbali e a privilegiare i messaggi trasmessi involontariamente dalla vocalità più che dai contenuti del discorso; lo addestra ad ascoltare le inaudite voci dell’inconscio, quelle che, al pari dei lapsus, si infiltrano nella lingua, scavalcandone l’elaborazione cosciente.

La musica possiede inoltre la virtù di stimolare percorsi mentali alternativi, suggerire deviazioni al pensiero, promuovere una mobilità delle idee, che favorisce l’attraversamento di aree psichiche meno frequentate di altre (1).

L’ascolto musicale insegna quindi ad ascoltare ciò che non sappiamo dire. Non si tratta dunque di applicare la psicoanalisi alla musica ma, come dicevamo all’inizio del capitolo, di tentare un’operazione inversa: applicare la musica alla psicoanalisi, per addestrare i nostri mezzi mentali a contattare quello che non può essere detto, qualche tempo prima che lo sia; per esplorare così il campo del pre-verbale.

L’inconscio, come si sa, è privo di un vero e proprio linguaggio paragonabile alla nostra lingua quotidiana. Al di là delle teorizzazioni di Lacan, che lo considera “strutturato come un linguaggio”, l’inconscio non dispone né di un lessico, né di una sintassi, ma solo di qualche funzione espressiva analoga alla metafora e alla metonimia.

L’inconscio però risuona nella mente altrui, fa sentire la sua presenza con modalità pre-verbali piuttosto che verbali, e cioè con modalità musicali più che linguistiche. È per questo che in seduta l’analista ha bisogno di un orecchio musicale(2).

E ne ha bisogno soprattutto quando il paziente gli chiede di funzionare non tanto come intelligenza che spiega le cause, ma come interlocutore capace di interagire con la parte indifferenziata e muta della psiche e di ospitare quelle esperienze che non hanno trovato parole per essere dette o sono in attesa di trovarle.  Invece che fornire all’analizzando chiavi per decifrare i suoi “rebus interiori”, occorre allora fornirgli uno strumento ricettivo che supplisca con la sua sensibilità ai deficit espressivi di un oggetto muto qual è l’inconscio.  Occorre cioè affiancare la sua mente, che soffre di limitate capacità trasformative simboliche, con un efficace dispositivo d’ascolto (3).

L’ascolto dell’analista deve saper conferire il giusto rilievo a suoni e significanti verbali, cogliendo realtà inaudite del mondo affettivo altrui; così facendo dispone ad una precognizione dell’inconscio .

Quando si parla di elaborazione psicoanalitica, ci si riferisce spesso a un’area di “risonanza interiore”, intesa come una particolare forma di intimità tra il mondo interno del paziente e quello dell’analista, mediata dalla capacità di quest’ultimo di dare ai messaggi dell’altro una prima configurazione sensoriale , che li prepari a diventare parola. In quest’area devono soggiornare i sogni e le fantasie, per poter acquistare senso dicibile. Di Benedetto è del parere che in quest’area lavori un pensiero di tipo musicale , che trasforma le immagini in suoni atti a fungere da precursori del linguaggio verbale (4).

Un tipo di ascolto sensibilizzato ai valori fonici e alle figure emergenti dal suono scova nella musicalità del parlare un risvolto pre-rappresentativo che giace nell’inconscio in condizione di latenza verbale. Da questo punto di vista il latente non è solo un’altra scena sotto quella manifesta, ma anche tutto ciò che sta annidato nei suoni della voce a costituire l’ordito sonoro di un discorso a venire (5).

L’ascolto psicoanalitico, sintonizzato con la dimensione sonora del parlare, funge insomma da dispositivo atto a rilevare e dar senso all’esperienza psichica profonda del paziente, prima che giunga ad essere detta.

Queste considerazioni portano a chiederci in che misura l’esperienza analitica ha analogie con l’esperienza musicale e a ricercare  le affinità tra la pratica dello psicoanalista e la pratica del musicista.

A questo punto, possiamo quindi fare una prima considerazione : la musica fonda il suo potere produttivo, creativo, sulla interpretazione che è anche lo strumento principe della psicoanalisi. Ambedue le interpretazioni (quella musicale e quella analitica) consentono di rivelare quello che a prima vista non sta scritto nello spartito (del musicista) o nella narrazione (del paziente). Ambedue leggono/ascoltano il linguaggio secondario che il compositore/analizzando ha lasciato sullo spartito/narrazione che costituirà il linguaggio primario della comunicazione (6).

L’interprete della musica (come lo psicoanalista) penetra in una possibilità data e la modifica, senza però alterarla, e dà una voce altra a un materiale costituito, influenzandone l’espressività. Ciò può permettere all’ascoltatore (o al paziente), di rispecchiarsi e di ritrovarsi in questo nuovo mondo di suoni (o parole).

Il compositore (o il paziente) oggettiva il contenuto del proprio mondo interiore; a sua volta l’interprete (o il terapeuta) tenta una comprensione empatica delle intenzioni e dei concetti del compositore  (o del paziente) e li analizza tenendo conto della propria capacità di proiettarli in suoni (o parole) che li modificano di quel tanto che basta a farli recepire dall’ascoltatore ( o dal paziente), senza distorsioni, suggestioni o seduzioni pericolose, stimolando una giusta reattività, un adeguato contatto psicologico e una consapevolezza della logica strutturante (7).

Quello che quindi l’interprete musicista e lo psicoanalista devono fare è dare una voce nuova a un materiale preesistente, oppure, per usare le parole di Augusto Romano : << Al terapeuta spetta di suonare la musica che manca al paziente, che il paziente non conosce, ma che pure è nascosta dentro di lui >>(8).

In una metafora efficacissima Speziale-Bagliacca (9) parla dell’analista come di colui che dovrebbe essere in grado di risuonare come la viola d’amore. In questo strumento ad arco, dalla forma di una viola, una doppia teoria di corde è obbligata a vibrare per “simpatia”, anche se solo una viene toccata dall’arco. Suonano su uguali lunghezze d’onda, accordate all’unisono, ma affinchè si produca della buona musica le corde inferiori, quelle dell’analista, per rimanere nella metafora, non devono suonare autonomamente, ma prestarsi ad arricchire il suono, senza imporsi (10).

L’analista dovrebbe allora accettare la possibilità di farsi transitare dalle emozioni dell’altro nella relazione, ascoltando primariamente la propria vibrazione, la messa in movimento dentro di sé di quei frammenti di pensiero confusi, spaventati, esitanti o semplicemente in attesa di venire alla luce che l’analizzando affida al suo analista attraverso le infinite comunicazioni consapevoli o non, corporee o non, verbali o non, che si intrecciano nell’ora di analisi (11).

L’analista , come dice Di Benedetto, è come un interprete , che traduce <<i segni muti di un pentagramma inconscio>> in un discorso ascoltabile (12); ma tradurre i segni muti di un pentagramma non vuol dire svelare un mistero, ma soltanto farlo risuonare , e dunque assumersene la responsabilità.

Su questa strada ci soccorrono i miti dei popoli,  secondo i quali ogni uomo ha ricevuto dagli dei una <<canzone individuale>>, che <<è una melodia che esprime il suo ritmo individuale>>, e un <<suono fondamentale>> che <<costituisce la realtà metafisica ultima e personale del suo possessore>>(13).

In questa prospettiva, la malattia va considerata come un errore che getta l’uomo in balia di uno spirito, <<la cui voce rotta si nutre succhiando la sostanza sonora del corpo umano>>(14); lo scopo dell’intervento sarà quindi quello di ripristinare la musica originaria. Questo corrisponde in analisi, a sentire la musica dell’altro, il suono, il ritmo, qualcosa che sta nelle parole e oltre le parole, ed è la percezione di un andamento, di uno stile, di un’impronta individuale.



Note:

(1) Di Benedetto A., Prima della parola , Franco Angeli , Milano , 2000 , p.160.

(2) Di Bendetto A.(1998), << I sogni suonano? >>, in AA.VV. Morpurgo E.,Egidi V. (a cura di), La forma segreta, Franco Angeli, Milano.

(3) Di Benedetto A. (2002), << La musica come arte speculare alla distruttività della malinconia e alla creatività del lutto>>, Op.cit., pp.98-99.

(4) Di Bendetto A. Prima della parola , Franco Angeli , Milano , 2000 ,  p.57.

(5) Di Benedetto A. (1993), << La sublimazione nella prospettiva di Bion e Matte Blanco >>, in Riv.Psicoanal., 39, 1.

(6) Mancia M., << Psicoanalisi e forme musicali >>, in Volterra V. (a cura di) Melancolia e Musica : creatività e sofferenza mentale, Franco Angeli, Milano, 2002.

(7) Volterra V., <<La dove finisce il pianto >>, in Volterra V. (a cura di) Melancolia e Musica : creatività e sofferenza mentale, Franco Angeli, Milano, 2002, p.16.

(8) Romano A. Musica e psiche , Bollati Boringhieri, Torino, 1999.

(9) Speziale-Bagliacca, R., << Ferenczi: il corpo, il contenimento e il controtransfert >>, in Borgogno F. (a cura di), La partecipazione affettiva dell’analista, Franco Angeli, Milano, 1999.

(10) Credo che questa intuizione di Speziale-Bagliacca sia estremamente valida per illustrare la riflessione apertasi nella psicoanalisi contemporanea sugli aspetti legati alla partecipazione affettiva e sensoria dell’analista nella relazione, aspetti tenuti in ombra per anni a causa della necessità per Freud di demarcare la distanza della novella scienza, la psicoanalisi, dagli aspetti ipnotico-suggestivi da cui aveva tratto origine.

(11) Carollo R., <<Trasgressioni e trasformazioni nel duetto analitico>>, in Carollo R.(a cura di) La musica del diavolo: il diavolo nella musica, Moretti & Vitali, 2000, p.12-13.

(12) Di Benedetto A. (1994), Ascolto psicoanalitico e ascolto musicale, Relazione al Convegno <<Ascolto psicoanalitico e orecchio musicale>>, Lavarone. Testo dattiloscritto.

(13) Schneider M. (1960), Le Role de la musique dans le mitologie et les rites de civilisations non europeennes, Gallimard, Paris, trad.it. La musica primitiva, Adelphi, Milano, 1962.

(14) Schneider M. (1960), Le Role de la musique dans lemitologie et les rites de civilisations non europeennes, Gallimard, Paris, trad.it. La musica primitiva, Adelphi, Milano, 1962. Ivi, p.120.

Trattato di Psicoanalisi. a cura di Antonio Alberto Semi

  Trattato di Psicoanalisi. Teoria e Tecnica. Vol.1

Autore:   a cura di Antonio Alberto Semi

Editore : Raffaello Cortina

Anno: 1997

Pag. 950

Capitoli

TEORIA

1. E.Funari – Contestualità e specificità della psicoanalisi

2. F.Petrella – Il modello freudiano

3/A. G.Carloni – Sàndor Ferenczi e la scuola ungherese

3/B. G. De Simone Gaburri, B.Fornari – Karl Abraham e la psicoanalisi a Berlino

4. G. De Simone Gaburri, B.Fornari –  Melanie Klein e la scuola inglese

5. E. Gaburri, A.Ferro – Gli sviluppi kleiniani e Bion

6. P.M.Masciangelo – Su Freud per il dopo Freud. Una riflessione metapsicologica

7. A.A.Semi – La funzione della teoria e delle differenze teoriche in psicoanalisi

TECNICA

8. A.Saraval – La tecnica classica e la sua evoluzione

9. M.Arrigoni Scortecci – La tecnica del trattamento degli stati psicotici

10. R.De Benedetti Gaddini – Le variazioni di tecnica nel trattamento dei bambini

11. G.Giaconia – Problemi di tecnica nel trattamento degli adolescenti

12. S.Corbella – La terapia di gruppo

13. G.Sacerdoti – Problemi di applicazione o sviluppo della psicoanalisi

 

  Trattato di Psicoanalisi. Clinica. Vol.2

Autore:   a cura di Antonio Alberto Semi

Editore : Raffaello Cortina

Anno: 1989-1997

Pag. 990

Capitoli

1. F. Petrella – Nosologia e psicoanalisi

2. A.A.Semi – Psiconevrosi e trauma

3. G. Sacerdoti – Isteria

4. J. Amati Mehler - Fobie

5. S. Spacai – La nevrosi ossessiva

6/A D. De Martis – La perversione: aspetti generali
6/B A. Kluzer Usuelli - La perversione: il contratto perverso
6/C P.M. Masciangelo – La perversione: assetti, funzionamenti e relazioni perverse. Metapsicologia di un’esperienza clinica

7. D. Lopez e L. Zorzi Meneguzzo – Dal carattere alla persona

8. A. Racalbuto – I modelli dei casi-limite

9. B. Gatti – L’anoressia mentale

10. M. Arrigoni – Scortecci La costruzione di modelli psicoanalitici nelle psicosi

11. A.A. Semi – Modelli psicoanalitici della depressione

12. R. De Benedetti Gaddini – La psicoanalisi infantile

13. P. Lussana – La psicoanalisi infantile su base kleiniana

14. G. Giaconia – Adolescenza: mutamenti e patologia

15. R. Tagliacozzo – La supervisione

Trattato di psicoanalisi. Otto Fenichel

    Trattato di Psicoanalisi. Delle nevrosi e delle psicosi

Autore: Otto Fenichel

Editore  Astrolabio Ubaldini

Anno : 1951

pag. 796

Questo libro è soprattutto uno strumento di studio: il più fondato e autorevole trattato di psicoanalisi. Contiene un indice bibliografico di 1.800 voci e un indice analitico con 6.945 riferimenti.

Edward Hopper. Nighthawks

 

Edward Hopper - Nighthawks

Edward Hopper - Nighthawks

Edward Hopper. Nighthawks ( Nottambuli) 1942.

Olio su tela 76,2x144cm. Art Institute of Chicago.

 

Nghthawks è il capolavoro di Edward Hopper, probabilmente il suo quadro più conosciuto e riprodotto. Lo stesso autore amava molto questo dipinto, a cui era stato ispirato da un ristorante all’incrocio di due vie del Greenwich Village a New York. In un’intervista Hopper dichiarò che probabilmente, il quadro era il suo modo di pensare alla notte : “Solitaria e vuota?” chiese l’intervistatrice, “Non mi sembra particolarmente solitaria. Ho semplificato molto la scena ed ho ingrandito il ristorante. Probabilmente inconsciamente ho dipinto la solitudine di una grande città”, aggiunse l’artista.

Il dato immediatamente evidente è il gioco dei colori nella fredda luce artificiale del neon che inonda il locale.

Il tema più evidente del dipinto è probabilmente il fascino della notte…la cui oscurità è rischiarata dal neon del bar che proietta la sua luce, attraverso la grande vetrata, negli interni dei vicini negozi chiusi.
La posizione angolare del locale permette uno sguardo dall’esterno all’interno e poi di nuovo all’esterno; l’ampia vetrata apre la visione al suo interno e ci permette di cogliere interamente la scena, “interpretata” da quattro personaggi: il barman che serve gli ultimi tre clienti, un uomo solitario visto di spalle e una coppia chiusa in un apparente mutismo.

In Nighthawks il vetro è un elemento dominante. Malgrado la trasparenza, esso divide; unisce in senso ottico e nello stesso tempo separa. Le pareti infatti, formate esclusivamente di vetro e interrotte solo da sottili montanti, permettono di confondere fra loro l’interno e l’esterno di un edificio, quasi fino a renderli indistinguibili.

Il ristorante è messo in scena con un evidente amore per il dettaglio: i contenitori del sale e del pepe, il distributore di tovagliolini, le tazze, le macchine del caffè: tutto è mostrato con estrema precisione e in pieno stile hopperiano non c’è azione ma solo una situazione, una ripresa istantanea.

Le persone sono completamente isolate: rispetto all’esterno, ma anche all’interno, dove nella sua gabbia di vetro le persone non entrano in comunicazione. All’interno del bar ci sono infatti “3 situazioni” : il Barman, la coppia e il signore seduto di spalle, tutte riunite nello stesso locale ma isolate, assorte nei loro pensieri o nelle loro solitudini.  Quindi, visto che le strade fuori dal locale sono deserte, la solitudine qui rappresentata è sia interna, che esterna .

L’osservatore è invitato così a guardare nell’intimità di uno spazio interno, attraverso la grande vetrata di questo bar come se stesse guardando dentro un acquario, momenti di vita qualsiasi, quotidiani, tutti uguali e anonimi e viene contemporaneamente condotto verso un processo di introspezione psicologica che capovolge lo sguardo dalla superficie del dipinto verso la propria interiorità.

Nelle sue opere, Hopper ha sempre saputo cogliere un momento particolare, il preciso secondo in cui il tempo si ferma, dando all’attimo un significato eterno, universale e al quadro una dimensione onirica sospesa nel tempo.

In questo quadro, come in ogni sogno, siamo “spettatori” di noi stessi, guardiamo nella nostra interiorità e in Nighthawks Hopper ci fa vedere la solitudine dell’uomo, una solitudine incomunicabile, mascherata dalle artificiosità delle luci di una grande metropoli. Solitudine e luce artificiale … è come se l’autore avesse voluto rappresentare le due realtà di una grande metropoli, una città ricca di luci artificiali create forse per coprire una grande solitudine interna ed esterna. Spesso infatti, in una grande città ci si può sentire molto soli, come i personaggi di questo dipinto, i cui corpi sono divisi solo da pochi centimetri ma le loro menti e le loro vite sembrano lontane anni luce.

Il metodo delle libere associazioni

Il metodo delle libere associazioni

Antonio Alberto Semi (2011)

Raffaello Cortina Editore, Milano, pag. 141

E’ osservazione ormai comune che esistono molte attività che vengono chiamate psicoanalisi. Di questo l’Autore è ben consapevole e da tale constatazione sembra partire per descrivere con rigore il metodo delle libere associazioni nella psicoanalisi freudiana.
Per Freud il metodo si prefigge di creare le condizioni atte a ristabilire la continuità psichica interrotta dalle necessità difensive dell’individuo che, nel loro insieme, stanno alla base dello svilupparsi della nevrosi.
Nasce, quindi, all’interno di una specifica concezione dell’individuo, di una teoria che ha pensato un apparato psichico, sue regole di funzionamento e relative possibilità di intervento.
Succede allora che leggendo il libro, man mano che si procede nella comprensione del metodo, delle sue ragioni e delle sue regole, si delineano sullo sfondo caratteristiche e specificità di quella teoria. Semi mostra che c’è una stretta coerenza tra metodo e teoria all’interno della quale tale metodo è stato sviluppato. E’ perfettamente consapevole che medesimi termini possono avere significati diversi per i vari psicoanalisti (leggi per i sostenitori delle diverse psicoanalisi) e sceglie di illustrare un punto di vista specifico, quello freudiano, invitando implicitamente a definire con chiarezza (e possibilmente, aggiungerei, altrettanta coerenza) quelli differenti.
«Il metodo psicoanalitico si basa sulla collaborazione tra due persone al fine di consentire ad una delle due il ripristino della funzione associativa» (52). Esso implica un assetto di lavoro in cui analizzando ed analista intrecciano libere associazioni ed attenzione ugualmente fluttuante in quanto «il ripristino della funzione associativa può avvenire solo in presenza di un altro» (51). Ne deriva che «se la psicoanalisi è centrata sulla persona del paziente questo è dovuto non ad un atteggiamento ‘individualistico’ o ‘intrapsichico’ o ‘antirelazionale’, ma alla consapevolezza della fallimentarietà delle situazioni cliniche nelle quali la suggestione ha una parte importante» (29).
L’impiego del metodo ha come presupposto che “la parola è un’azione” (cfr. p. 24) e ciò determina nell’individuo “un analogo al teatro greco” (cfr. p. 26) in cui il linguaggio “dà voce a personaggi che sono interni al soggetto”.
Come è noto, il metodo psicoanalitico delle libere associazioni è stato sviluppato da Freud studiando e trattando le nevrosi. Semi parte da questo dato per indagarne le implicazioni: «La nevrosi è una malattia storica. Nel senso che occorre un determinato tipo di soggettività per poterla elaborare o, viceversa, che un certo tipo di soggettività comporta la possibilità della nevrosi» (13). «La stessa cosa si può dire del metodo delle libere associazioni, metodo possibile solo in un contesto nel quale la soggettività è possibile e fondante per l’individuo e l’ancoramento della vita psichica ad una realtà esterna, meta-fisica, una realtà tale da garantire l’esistenza di tutte le altre realtà, non è più necessario» (pp. 13-4).
Un ambito quindi specifico e ristretto che lascia aperta la necessità di individuare le strade per rendere possibile, quando già non lo sia, l’applicazione del metodo e quindi anche l’opportunità di interrogarci come (e se) al di fuori di questo specifico ambito possa essere utilizzato ed eventualmente che caratteristiche assuma e che ragioni lo sostengano.
Infatti, se comunemente il metodo delle libere associazioni è presentato come “il metodo della psicoanalisi”, un metodo che la attraversa tutta, dalla clinica alla teoria ed è uno dei terreni in cui sembra esserci unanimità tra gli psicoanalisti (unità più celebrata forse che indagata), l’Autore ci propone una serie di distinguo e ci invita ad un confronto che potrà anche dividerci: «l’ecumenismo teorico che sbarrava il passo a discussioni ritenute drammaticamente fallimentari e fallimentarmente drammatiche è arrivato ormai al termine del suo tragitto» (p. XI).
Si tratta di un libro che nasce dalla prolungata esperienza di insegnamento ai Candidati Psicoanalisti; è quindi un libro che mira ad insegnare e sa farlo (e sarà di grande aiuto nella formazione) ma non di meno a far discutere e cioè a far pensare (invitandoci tutti a collocarci in questo dibattito).

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